
I mondiali
da poco conclusi hanno incoronato creatività e preparazione.
Al dilà delle delusioni dei sostenitori nazionali, una volta
tanto i valori premiati sono stati quelli che meritavano il
blasone. Da ultimo, dimenticati i cadaveri eccellenti ma
inevitabili, la durezza consapevole ha affrontato la giocosa
fantasia. La tenzone finale fra il cuore e il cervello,
sostenuti dai muscoli necessari, ci ha finalmente appagato.
Rimangono le eco dei singoli giardinetti, ricondotti
all’abuso di provincialismo. Gli italiani, usciti ancor
prima di guardarsi allo specchio, si son rintanati
nell’usuale valzer retrospettivo. Pianti e incredulità pure
nei fans brasiliani in Sudafrica e in casa. Il giornalista
Antonello Piroso li aveva erroneamente appellati “carioca”
non sapendo che questo si riferisce esclusivamente agli
abitanti di Rio de Janeiro. Maurizio Costanzo commentando a
caldo, diceva che la squadra sudamericana era "implosa",
rivelando, nonostante la sottigliezza intellettuale, tutto
il vuoto giornalistico nella conoscenza del mondo
brasiliano. Che è poi l'ignoranza di tutti gli italiani,
peggio se politici o attori istituzionali, sul resto del
mondo. Ci si importa di se stessi, quindi si equiparano gli
altri a noi. Il rispetto non emerge, certamente non quello
che chiede umilmente di interessarsi, di capire il diverso
da sé attraverso un lavoro pesante di esperienza sul campo.
Ormai ci basta fluttuare, evocare, citare, rimare. E’ il
gioco delle ombre, dove una testa vale un numero o un voto,
non certo una storia o una cultura, perché magari si teme di
chiamarla differenza scivolando nel politically
incorrect.

Ma com’è
in realtà questo nuovo mondo? Il brasiliano che ti riconosce
come italiano ti chiede subito "italia tetracampeao?"
dimostrando che ti classifica già in virtù di quante volte
hai vinto i mondiali. Loro sono "penta",
cioè cinque, e questo dato te lo sanno dire tutti, dalla
signora che fa la spesa al supermercato al bambino di
quattro anni che gioca con lo skate in favela.
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Che
significato ha, quindi, l'insuccesso, in un paese dove ogni
bambino che non gioca a palla in spiaggia viene deriso col
nome di gambadilegno?
Lo si
può capire solo comprendendo che il Brasile parte ogni volta
solo per vincere, sentendo al titolo inevitabile come il
capodanno o il carnevale, e quando non arriva deve
riscrivere il mondo intero delle sue percezioni.
Quando un
giocatore entra in campo si fa il segno della croce, quando
segna alza gli occhi al cielo per cameratismo, non solo per
ringraziamento. Ma tutti, assolutamente tutti, arrivano ai
mondiali con la certezza di essere baciati dal deus
che è inevitabilmente verdeoro.
Quindi, se
questo non avviene, occorre chiedersi, perche Deus non lo ha
permesso? Che sarà accaduto?
Certo, l'umano ci mette la sua,
quindi ci saranno epurazioni dopo i pianti, ma solo per
comprendere come mai le cose non sono andate come era
destino che accadesse, nella mente del creatore della pelota brasileira, quel futebol democratico di
nazione che non comprende l'ingiustizia della sconfitta.
Un fatto
caratteristico e significativo. Tutti in Brasile avevano già
comperato i fuochi d’artificio, nell’attesa di festeggiare
la vittoria finale. La delusione si è allargata alla
praticità: che fare adesso di fuochi e mortaretti?
Per fortuna
pochi giorni dopo anche l’odiata Argentina, nemica di
sempre, è stata sconfitta e ha subito l’onta del rimpatrio
anticipato.
Il destino ha fornito così il motivo ai
brasiliani di lanciare nel cielo i fuochi d’artificio, in
una soddisfazione che valeva una festa.
Max lulho 2010 |